Gabriele Toneguzzi

Emil Cioran: In forma di confessione


Emil M Cioran biografia

 
Ho voglia di scrivere solo in uno stato esplosivo, nella febbre o nella convulsione, in uno stupore mutato in frenesia, in un clima da regolamento dei conti, in cui le invettive sostituiscono gli schiaffi ed i calci. Di solito succede così: un leggero tremore che diventa sempre più forte, come dopo un insulto incassato senza rispondere. Espressione sta per replica tardiva oppure aggressione differita: scrivo per non passare all’atto, per evitare una crisi. L’espressione è sollievo, rivincita indiretta di chi non può digerire un’onta e si ribella a parole contro i propri simili e contro di sé. L’indignazione è meno un moto morale che letterario, è anzi la molla dell’ispirazione. E la saggezza? Esattamente l’opposto. Il saggio che è in noi rovina tutti i nostri slanci, è il sabotatore che ci sminuisce e ci paralizza, che spia il pazzo in noi per calmarlo e comprometterlo, per disonorarlo. L’ispirazione? Uno squilibrio subitaneo, voluttà senza nome di affermarsi o distruggersi. Non ho scritto una sola riga alla mia temperatura normale. Tuttavia, per lunghi anni, mi sono ritenuto il solo individuo esente da tare. Quell’orgoglio mi fu benefico: mi ha permesso di riempire fogli. Praticamente ho cessato di produrre nel momento in cui, calmatosi il delirio, sono divenuto preda di una modestia perniciosa, funesta per quello stato febbrile da cui emanano le intuizioni e la verità. Posso produrre solo se, disertato improvvisamente dal senso del ridicolo, mi considero l’inizio e la fine.
Scrivere è una provocazione, una visione fortunatamente falsa della realtà che ci situa al di sopra di ciò che è e di ciò che sembra essere. Rivaleggiare con Dio e persino superarlo con la sola virtù del linguaggio, ecco l’impresa dello scrittore, esemplare ambiguo, lacerato e infatuato che, uscito dalla sua condizione naturale, si è abbandonato ad una vertigine superba, sempre sconcertante, talvolta odiosa. Niente di più miserevole della parola, eppure grazie ad essa ci si apre a sensazioni di felicità, a una dilatazione estrema in cui si è totalmente soli, senza il minimo senso di oppressione. Il supremo raggiunto con il vocabolo, con il simbolo stesso della fragilità. Curiosamente, lo si può raggiungere anche con l’ironia, purché questa, spingendo al limite la sua opera di demolizione, dispensi brividi di un dio alla rovescia. Le parole come agenti di un’estasi capovolta… Tutto ciò che è veramente intenso ha i caratteri del paradiso e dell’inferno, con questa differenza, che il primo possiamo solo intravederlo, mentre il secondo, abbiamo la ventura di percepirlo e, più ancora, di sentirlo. Esiste un vantaggio ancora più notevole, di cui lo scrittore ha il monopolio: quello di sbarazzarsi dei propri pericoli. Mi chiedo cosa sarei diventato senza la facoltà di riempire delle pagine. Scrivere significa disfarsi dei propri rimorsi e dei propri rancori, vomitare i propri segreti. Lo scrittore è uno squilibrato che si serve di quelle funzioni che sono le parole per guarirsi. Su quanti malesseri, su quanti accessi sinistri ho trionfato grazie a questi rimedi insostanziali!

Scrivere è un vizio di cui ci si può stancare. In verità, io scrivo sempre meno, e finirò probabilmente col non scrivere più del tutto, col non trovare più il minimo fascino in questa lotta contro gli altri e contro me stesso.
Quando ci si dedica ad un argomento, anche un argomento qualsiasi, si prova un senso di pienezza, accompagnato da un pizzico di albagia. Fenomeno ancora più strano: quella sensazione di superiorità quando si evoca una figura che si ammira. Con quanta facilità, nel mezzo di una frase, ci si crede al centro del mondo! Scrivere e venerare non vanno d’accordo: lo si voglia o no, parlare di Dio, è guardarlo dall’alto. La scrittura è la rivincita della creatura e la sua risposta a una Creazione raffazzonata. 

 

This entry was written by gt, posted on 26 Ottobre 2006 at 10:55, filed under Biblioteca, Filosofia. Leave a comment or view the discussion at the permalink.