Gabriele Toneguzzi

Appunti sui rotabili storici Trenitalia


Etr 200 (209) Breda, fotografato a Sesto San Giovanni nel 1938 (Photorail.it)
galleria di tre foto: esterno, interno treno ed interno cabina di guida

Trenitalia, oberata da mille difficoltà, problemi ordinari e straordinari, a fatica si barcamena occupandosi del presente. Epperciò riesce difficile pensare abbia la forza di occuparsi del passato. Ed è un vero peccato perché si tratta d’una grande eredità, un patrimonio culturale.

Significativamente, nonostante l’importante ricorrenza del centenario dell’istituzione delle Ferrovie dello Stato, lo scorso anno non v’è stata, a riguardo, nessuna iniziativa degna di nota. (altro…)

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Brenner Basis Tunnel


Brenner Basis Tunnel
cartina comparativa del percorso attuale e futuro

Del tunnel di base del Brennero (Bbt), opera impegnativa dal punto di vista finanziario, tecnico ed ambientale si discute dagli anni ’70, sino ad ora pacificamente, sull’opportunità di una sua realizzazione.

La lunghezza totale della galleria supera i 50 Km ed è grossomodo analoga a quella progettata per l’Alpetunnel della Valsusa, al tunnel che si sta costruendo sotto il Gottardo (parte dell’ambizioso progetto Alp Transit) e dell’Eurotunnel: di tutti, quest’ultimo è il solo in esercizio, a partire dal 1994. Per gli investitori, lo stato dei conti della società che lo gestisce è una continua débâcle: oltre ad aver sopportato il raddoppio dei costi di costruzione, fino ad ora ricavi e transiti sono abbondantemente inferiori alle stime di progetto. In particolare, le quote di trasporto merci ammontano a circa un terzo del previsto, mentre quelle per i passeggeri a circa la metà. Tutto ciò nonostante la netta convenienza, in termini temporali, dell’attraversamento della Manica col vettore ferroviario (35 min contro i 175 di quello marittimo) e l’assenza d’alternative stradali.
Tornando alle Alpi, i cinque maggiori valichi ferroviari che interessano l’Italia pare siano utilizzati, secondo stime grossomodo concordi, molto al disotto delle loro potenzialità: Frejus 37%, Sempione 14%, Gottardo 60%, Brennero 33%, Tarvisio 18%. Le più rosee previsioni non riescono ad ipotizzare, perlomeno nel medio-lungo periodo, un esaurimento della capacità di traffico residuo disponibile.

Nonostante il fortissimo incremento nella movimentazione dei prodotti industriali, dal 1970 ad oggi le percentuali di merce trasportata attraverso l’arco alpino s’è letteralmente invertita: sul totale, ora il ferro detiene una quota pari a circa il 30%, mentre la gomma raggiunge il 70%, tendenzialmente in aumento. Fra l’altro, l’anno scorso, secondo i dati dell’Uic (Union Internationale des Chemins de Fer) il tonnellaggio generale del trasporto merci realizzato in Italia dal gruppo Fs, rispetto al 2004, è diminuito del 9%. Non bastasse, incredibilmente la divisione Cargo è costretta a sopprimere treni già contrattualizzati per difetto cronico di mezzi e personale.
Solo particolari restrizioni o incentivi al traffico come, ad esempio, nel caso degli ecopunti escogitati a suo tempo dall’Austria proprio sull’asse del Brennero onde decongestionarlo, fanno scendere, nel periodo di vigenza e su quei precisi itinerari l’incidenza della spedizione tramite camion.
L’attuale linea da Verona al valico, pur in presenza di acclività notevoli che richiedono la doppia trazione (due locomotive) per trainare treni pesanti, potrebbe sopportare (con adeguamenti tecnologici in buona parte conclusi) almeno 220 treni al giorno, di cui 140 dedicati alle sole merci, arrivando a smaltire, con calcoli molto prudenziali, circa 25 milioni di tonnellate pro anno in luogo delle 8 attuali. V’è da aggiungere poi che la linea afferente al non distante valico di Tarvisio, ancor più sottoutilizzata, è stata totalmente rimodellata da pochissimi anni: alla sua radice v’è il grosso interporto di Cervignano (Udine), è a doppio binario, non esistono limiti di sagoma nelle gallerie, le pendenze ed i raggi di curvatura sono ragionevoli e le velocità effettive variano fra i 140 e i 180 km/h contro i 100 km/h ipotizzati (per le merci) nel progetto per il Bbt.

4,5 Mld di euro: questa è la cifra notevolissima, circa metà dell’ultima manovra finanziaria di assestamento, da spendere (salvo i classici e prevedibili aumenti) per la realizzazione del solo tunnel sotto il Brennero (pronto ufficialmente nel 2016 e realisticamente, forse, nel 2025), senza conteggiare gli indispensabili adeguamenti al resto della linea: circa 200 km in direzione Verona ed altrettanti verso Monaco. Nel frattempo la parallela galleria del Gottardo, altro asse di congiunzione fra nord e sud (argomento d’apposito referendum in Elvezia) ad oggi, è completa oltre il 60% e, salvo imponderabili problemi geologici, sarà in funzione da qui a dieci anni. In Italia, quasi nessuno sembra accorgersene: del necessario adeguamento della linea da Chiasso a Milano par non vi siano segnali concreti. Le Ferrovie Federali Svizzere, dopo aver sperimentato una brevissima partnership con le Fs, hanno impiantato a Gallarate la sede della loro divisione Cargo italiana, pronte a gestire il traffico dell’Alp Transit. Intanto le numerose merci che incrociano nel mediterraneo, provenienti da Suez, ricevono all’ultimo momento comunicazione della più conveniente destinazione ultima, generalmente doppiando l’Italia (pur se questa è termine di quote importanti del carico) per attestarsi spesso nei porti del Nord Europa. Questi scali, oltre ad essere più affidabili per i traffici di proseguio, offrono la possibilità d’inoltrare agevolmente il trasporto via terra coi camion a motivo del costo praticamente irrisorio per le imprese, prezzo ahinoi tutt’altro che risibile per la collettività. Con la solita e sempre più pressante penuria di denari, sarebbe forse il caso di interrogarsi su quali sono le vere priorità infrastrutturali.

Gabriele Toneguzzi

Articolo apparso su Il Giornale dell’Architettura, Luglio-Agosto 2006

Brenner Basis Tunnel
57 Km di galleria a doppia canna, una per binario.
Costo (a progettazione non conclusa): 4,5 Mld euro ca; 2,28 per il tratto italiano.
Termine ipotetico lavori: 2016 (più realisticamente 2025)

1986, Luglio
Italia, Austria e Germania siglano il protocollo d’intesa per lo studio d’un nuovo valico ferroviario del Brennero.

1994, Dicembre
Il Consiglio d’Europa si pronuncia sulla priorità del progetto di potenziamento della ferrovia Berlino-Norimberga-Monaco-Verona.

1999, Novembre
Si costituisce il Geie Brenner Basis Tunnel.

2004, Dicembre
Il Cipe approva il progetto preliminare del traforo.
È aggiudicata la progettazione definitiva; la consegna degli elaborati dovrà avvenire entro il 2006.

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Vivalto: un treno orfano di qualità


Carrozza Vivalto fotografata al deposito di Firenze Osmannoro da Ernesto Imperato

Con sei mesi di ritardo, il 26 ottobre 2005 è finalmente partito da Milano verso Domodossola il primo di 90 nuovi convogli battezzati Vivalto. Sarà destinato al trasporto regionale e, molto probabilmente, sostituirà le familiari, decrepite composizioni duplex derivate da quelle in servizio nella banlieue parigina. Il treno, composto da cinque carrozze a doppio piano, è predisposto per viaggiare a 160 km/h muovendo, nella configurazione standard, oltre 500 persone sedute. Internamente, i veicoli – dotati dell’indispensabile climatizzazione – sono equipaggiati con un sistema di videosorveglianza, monitor informativi, sacrosanta area attrezzata per due disabili e vano trasporto per cinque bici, purtroppo mal congegnato.

È un timido barlume di luce che fa percepire, sebbene molto in là, una probabile uscita perlomeno da uno dei lunghi e pesti tunnel in cui ora è obbligato il penoso percorso del trasporto locale su ferro.

Se, per un verso, le basilari esigenze dei negletti pendolari sembrano almeno in parte tacitate, ora che il progetto si manifesta dal vivo ad uno sguardo meno superficiale si parano innanzi più forti le perplessità che s’intuivano in carta. Il colpo d’occhio, già da lontano, non è dei migliori. La semipilota frontale, tozza e sgraziata, è malamente raccordata e si fa in un lampo ad immaginare che la visibilità dalla cabina non risulterà esser delle migliori. Sui fianchi, la teoria di finestrini presenta delle cornici esageratamente spesse ed i traversi orizzontali che sezionano le aperture d’emergenza per l’aerazione sono posti troppo a ridosso della mezzeria del foro rompendo inutilmente la visuale al viaggiatore. E pure s’intravede qualche sagoma degli schienali, segno che la disposizione interna non rispetta le quadre dei fori, obbligando dei tapini alla contemplazione parietale.

La declinazione della livrea di Trenitalia, commissionata – come il resto dell’identità societaria – ad uno studio londinese e purtroppo in auge da tempo, qui risulta particolarmente poco felice. Bastante non fosse, in bella vista campeggia il logotipo Vivalto che, almeno, sarebbe stato possibile tentare d’architettare: ad esempio, ispirandosi al gusto sobrio e sapido dei pittogrammi posti sui veicoli delle Ferrovie federali svizzere. Ancora all’esterno, sorprendentemente, il display indicatore delle destinazioni – utile compendio accessorio –, in virtù della posizione riesce scarsamente leggibile, soprattutto pensando a dei viaggiatori stipati su d’una banchina affollata.

Passando agli accessi, fortunatamente gli importantissimi vestiboli d’ingresso si rivelano decisamente ampi e quasi radenti i marciapiedi alti di nuova costruzione. A bordo, con un certo rincrescimento, ci s’accorge che l’interno soffre, in concreto, di finiture dozzinali e poco risolte, oltre a problemi ben più rimarchevoli: ad esempio, il fondamentale disegno dei sedili, lascia alquanto perplessi. E pure il loro rivestimento: come per le recentissime elettromotrici Taf, esso è realizzato in materiale che lascia pochi margini alla cristallina certezza d’un rapido insozzamento cui sarà poco agevole porre rimedio. Presumibilmente lo stesso capiterà a toilettes che, prive di accessori pensati e testati specificatamente per l’uso intensivo, si ridurranno al solito cubicolo scarsamente praticabile.

Al contribuente non è dato sapere il costo degli esemplari; ciò nondimeno, da un recentissimo documento dell’Agenzia Trasporti Pubblici della regione Emilia-Romagna è possibile arguire l’entità della quota versata a Trenitalia: 2mln di Euro per l’acquisto di ogni complesso.

Viste le non trascurabili cifre in gioco si potrebbe pretendere qualché di meglio. Purtroppo, la tradizione italiana nella realizzazione di valido materiale ferroviario sembra essersi persa da tempo. Pagano, Ponti, Minoletti, Zavanella, Koenig e pure la loro memoria sembra essere svanita nel nulla. Cosí com’è successo anche per la scomparsa vestale ferroviaria: l’Ufficio Materiale e Trazione delle Fs.

In questo ed in molti altri recenti casi, il progetto è orfano d’un vero padre. Oggidì la progettazione dei rotabili viene delegata in toto, sic et simpliciter all’industria privata che ha scarsi interessi ad investire nell’indispensabile ricerca. Se, come sembra, gare d’appalto e meccanismi di controllo producono risultati inadeguati sarebbe necessario ripensare il sistema. Soprattutto in vista di prossimi cospicui acquisti. Tuttavia, mille problemi più incombenti forzano la contemplazione delle ferrovie nostrane in orizzonti molto ristretti relegando per l’ennesima volta sullo sfondo quell’oscuro oggetto del desiderio nomato design.

Gabriele Toneguzzi

Articolo apparso su Il Giornale dell’Architettura, Dicembre 2005

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Parigi val bene una massa! (sp dixit)


Notre Dame de l’Arche d’Alliance, Paris
(Cliccare: galleria di undici immagini)

XVème arrondissement, 71 rue d’Alleray.

Vaugirard. Esco dalle budella della città, mentre le nari me ne rimandano ancora i nauseabondi effluvi.

Rue d’Alleray. Cinque… dieci… venti… trenta… trentasei… quarantatre. Snocciolo numeri che sembro Figaro; cerco un diavolo di fabbrica, e non riesco a trovarla. Dovrebbe esser qui; piccola come un ago, se c’è, non è! Sto per scassarmi: dopo la magra sorpresa di stamane, il cantiere attaccato con una fettuccina al parvis de la Défense, m’attendo – vada bene – qualcosa di simile. Le facciate lasciano spazio ad un varco… ecco: ottantuno! Finalmente, dopo averla vista, condensata in maquette, alle Zitelle, l’ho innanzi.

Cum animam gementem, contristatem et dolentem: NON è nera! Marron, d’un marron che rimembra poco edificante altro. L’oscuro cubo avrà spaventato il cardinale? Qui s’ammicca al santuario dell’Islam!

Qualsivoglia il motivo è, ahimé, certo non poca perdita, la tinta.

Lo scheletro esterno, la griglia, ipotetico tramite, dissolvenza tra sacro e profano sarà dipoi, a casa, tema d’un inedito, personale Aguzzate la vista: quarto livello dal basso, manca il terzo montante da sinistra.

Forse il desiderio di attenuare l’eccesso d’ordine, una boutade, come la finestrella ruotata nel reticolo, Quinta da Lago, Souto de Moura.

Ruoto la testa d’impiedi e rimetto ritto, come meglio mi garba, il sesto degli esili fusti d’acciaio: allineamenti visivi in gran copia; una sorta di pioppeto metallico.

Legno di rivestimento esterno previsto: sostituito. Succedaneo, pannelli in HPL, laminato ad alta pressione. Ave Maria impressa in caratteri gialli fitti sulla superficie, intelligibile solo gran dappresso. Altro rimando all’Islam…

Scalinata. La sorte mi assiste. Nuvole vanno e, adesso, vengono; scatto, leggermente sottesposto. Produco, casualmente, quel che avrebbe dovuto esser vera faccia: uno scorcio scuro.

Entro. Croce, croce, croce; croce 3D scavata nel cubo, croce incavata sul parterre, finestroni a croce, croce proiettata sull’abside e griglia crociata di delimitazione.

Dimentico della vera Croce, quale croce dimentico? Ah, quella minuscola reiteratamente incisa sul rivestimento interno; se è via crucis, veramente brutta è.

Croce sull’oculo. Gli piazzo sotto la reflex: paura d’abbruciare il film. Sottoespongo nuovamente. Ottengo una croce in più, inesistente, sulla griglia del sancta sanctorum. Potenza della Luce!

Dintorno non si scorge centimetro d’intonaco, se non attraverso pannelli a lamelle. Neon incassati a terra riverberano sui quattro cantoni, enfatizzandoli.
Muri e soffitto, tutto è Hpl (laminato ad alta pressione), come all’esterno, ma senza scritte. Nessun decoro. Molto è bellamente essenza.

Abside. Tabernacolo cruciproiettore, lampada votiva; tavolaccio-sedile, il coro. Altare: nettissimo parallelepipedo immacolato in Carrara. Candelieri: tre snelli cilindri d’acciaio, incassabili sinistra/destra sul pavimento ch’è ardesia, a spacco. Illuminazione: impercettibili terminali in fibra ottica, piazzati sotto bordogriglia, rischiarano la mensa. Ambone, o per meglio dire leggio, distante dalle equazioni canoniche. È acciaio, sospeso ed agganciato lateralmente ad un montante, provvisto anch’esso della brava crocetta.

Exsultate, jubilate? Via, no… ma il catino è ensemble eccellente, forse la parte più riuscita del tempio.

Tribune ai lati; passerelle sospese destinate ad accogliere opere d’arte?

Avanti, i finestroni – adduttori di troppa luce –, spero non abbandonati. Anzi. Piuttosto destinati alla primitiva finitura in alabastro, col Verbo traslucido impresso. Amen!

Nuovamente attrattovi, passo sopra la croce incavata nel pavimento; intravedo il fonte battesimale che si guadagna tramite la ripida scaletta, racchiusa da lastre vetrate sorgenti di sotto in su.

Muove sulla diagonale, la scala; parte, eccentrica, verso il vertice del quadrato opposto al fuoco sacro e si distende contemporaneamente in basso; risvolta su d’un pianerottolo triangolare arrivando, sdoppiate e sparse le ultime quattro alzate, nella spoglia aula dell’iniziazione.

Sulla fonte, scolpite fronte, fonti corpo vario invitano all’antifona d’entrata: « Dans le nom du Père… »

Fuori, dodicicolonne/dodiciapostoli/dodicitribùd’Israele abbracciano del battistero la cinta, sostenendo un cubo sopraelevato, il cui liscissimo estradosso inferiore, sbalzando, si raccorda alle altre facce tramite l’inefficace cornice a dentelli. Consunta memoria wrightiana?

Progetto, date contraddittorie; chi indica 1986 chi 1988. Ho null’affatto voglia di controllare. M’importa più sapere sia stato realizzato ben dieci anni dopo, a distanza di trent’anni (lasso temporale eloquente) dall’ultima consacrazione d’un nuovo edificio di culto dans cette ville.

1992: Pierre Vérot e Franck Debié: «Il progetto di Architecture Studio sfiora quasi il ridicolo moltiplicando i simboli […] che saturano lo spazio senza alcuna utilità autenticamente discesa dalla tradizione e dai bisogni della Chiesa»

No, di sposare questo giudizio, in gran parte, non me la sento.

Per esempio, WAM: KV 317, Krönungs-messe. Gloria; soprano, alto, tenore e basso saturano, al Domine Deo, lo spazio sonoro intonandone contemporaneamente le diverse parole, moltiplicandole, sfasandole, sovrapponendo voci, rendendo ridondanti e, teoricamente, incomprensibili… proprio i simboli. Eppure, a sentire, così non è.

È Architettura. Sacra.

In somma delle somme, fra molte chiese dall’aria dozzinale, ecco, ritratta, Notre Dame de l’Arche d’Alliance.

Ventiequaranta: ci si stacca da Roissy, fra stuoli di lepri indifferenti.

Avanti Le Bourget, il gallico capitaine fa gracchiare gli altoparlanti: « Voici, a votre gauche il y a le Stade de France où hier nous avons gagné… ». Appena in là, prima di tagliare la città, ecco l’Arche, stavolta battezzata Grand.

Coin est Cnit, appoggiato al parvis il puntino che attendevo: la gru già vista dal basso, segnale d’una prossima, promettente visita.

14 luglio 1998

Gabriele Toneguzzi

La Cité Celeste dessine un carré
Alors, l’un des sept Anges aux sept coupes remplies des sept derniers fléaux s’en vint me dire: « Viens que je te montre la Fiancée, l’Epouse de l’Agneau. » Il me transporta donc en esprit sur une montagne de grande hauteur et me montra la Cité sainte, Jérusalem, qui descendait du ciel, de chez Dieu, avec en elle la Gloire de Dieu. Elle descendait telle une pierre très précieuse, comme une pierre de jaspe cristallin. Elle est munie d’un rempart de grande hauteur pourvu de douze portes près desquelles il y a douze Anges et des noms inscrits, ceux des douze tribus des fils d’Israël; à l’orient, trois portes; au nord, trois portes; au midi, trois portes; à l’occident, trois portes. Le rempart de la ville repose sur douze assises portant chacune le nom des douze Apôtres de l’Agneau. Celui qui me parlait tenait une mesure, un roseau d’or, pour mesurer la ville, ses portes et son rempart; cette ville dessine un carré: sa longueur égale sa largeur. Il la mesura donc à l’aide du roseau, soit douze mille stades; longueur, largeur et hauteur y sont égales. Puis il en mesura le rempart, soit cent quarante quatre coudées. […] De temple, je n’en vis point en elle; c’est que le seigneur, le Dieu Maître de tout, est son temple, ainsi que l’Agneau. (Ap 21, 9-17.22)

La Gerusalemme Celeste/la Gerusalemme messianica
Poi venne uno dei sette angeli che hanno le sette coppe piene degli ultimi sette flagelli e mi parlò: « Vieni, ti mostrerò la fidanzata, la sposa dell’Agnello. » L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scendeva dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio. Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino. La città è cinta da un grande e alto muro con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele. A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e ad occidente tre porte. Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello. Colui che mi parlava aveva come misura una canna d’oro, per misurare la città, le sue porte e le sue mura. La città è a forma di quadrato, la sua lunghezza è uguale alla larghezza. L’angelo misurò la città con la canna: misura dodici mila stadi; la lunghezza, la larghezza e l’altezza sono eguali. Ne misurò anche le mura: sono alte centoquarantaquattro braccia, secondo la misura in uso tra gli uomini adoperata dall’angelo. Le mura sono costruite con diaspro e la città è di oro puro, simile a terso cristallo. Le fondamenta delle mura della città sono adorne di ogni specie di pietre preziose. Il primo fondamento è di diaspro, il secondo di zaffìro, il terzo di calcedònio, il quarto di smeraldo, il quinto di sardònice, il sesto di cornalina, il settimo di crisòlito, l’ottavo di berillo, il nono di topazio, il decimo di crisopazio, l’undecimo di giacinto, il dodicesimo di ametista. E le dodici porte sono dodici perle; ciascuna porta è formata da una sola perla. E la piazza della città è di oro puro, come cristallo trasparente. Non vidi alcun tempio in essa perché il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio. (Ap 21, 9-17.22)

Sta in: Architetti PD, 2000










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Lettera in vetrina


Carlo Scarpa disegno di una teca per le Gallerie dell’Accademia, Venezia
(cliccare per aggrandire l’immagine)
L’incontro di fresca data su vetrine museali e ambienti controllati, organizzato dall’Istituto Centrale per il Restauro, svoltosi a Ferrara nell’ambito dell’edizione appena conclusasi del Salone del Restauro, offre più d’uno spunto di riflessione. Contrariamente al passato, in cui le bacheche erano concepite a mo’di semplici contenitori protettivi, le teche museali e più in generale gli ambienti protetti, hanno subito un’evoluzione trasformandosi in macchine vieppiù complesse.

Il Decreto Ministeriale del 10 maggio 2001, atto di indirizzo sui criteri tecnico-scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei ha stabilito, fra l’altro, una serie di norme tecniche sottolineando l’importanza dei fattori ambientali per la corretta conservazione di qualsivoglia reperto. Da ciò discende una speciale considerazione degli ambienti confinati, particolari porzioni che devono garantire in modo ancor più stringente peculiari qualità del microclima, controllo dei flussi luminosi e molto altro. Pure, alla bisogna, far fronte ad eventi straordinari, come incendi o terremoti: recentemente sono state avviate sperimentazioni a tal proposito, realizzando all’uopo appositi raccoglitori.

Molte brillanti soluzioni di problemi pratici, per quanto bizzarro possa apparire, a volte sono mutuate da tecnologie adottate in settori industriali alquanto distanti dall’ambito espositivo: ad esempio, la custodia in atmosfera controllata è pratica derivata anche dalle tecniche di conservazione della frutta; proseguendo nell’esemplificare, in altri casi, la meccanica di grandi aperture deriva talvolta dai sistemi di guida adottati per le porte dei vagoni ferroviari, etc. Purtroppo però, la crescente sofisticazione genera nuove preoccupazioni che riguardano vuoi l’affidabilità del complesso d’apparecchiature, vuoi la loro manutenzione: in caso di banali guasti la cronica carestia di denaro che affligge il settore potrebbe originare situazioni estremamente difficili da gestire. Cosí come eventuali trascuratezze o negligenze. Perciò, tenuto conto di queste ipotesi tutt’altro che improbabili, sarebbe raccomandabile limitare la costruzione di apparati complessi a circostanze molto speciali.

In parecchi casi, si riuscirebbe ad evitare la costruzione d’involucri costosi e delicati grazie all’accurata conoscenza preliminare dei dati ambientali generali e particolari delle zone dell’edificio deputate a raccogliere le collezioni, campionati con rilievi circoscritti a periodi stagionali strategici. Sovente si potrebbero individuare e correggere a priori criticità banali, come squilibri termici localizzati, evitando di dover tamponare in seguito, solo grazie a costosissime acrobazie, delle falle macroscopiche.
Malauguratamente, quel ch’è ovvio non è detto sia cosí evidente: pure in famose quadrerie di risistemazione relativamente recente, ad esempio la Galleria dell’Accademia di Firenze, si può osservare come l’impianto di climatizzazione, mediante le bocchette terminali, insufflerebbe aria direttamente sulla superficie dei dipinti, non fosse per un ingegnoso intervento correttivo a posteriori da poco realizzato, una sorta di leggio didattico, allo stesso tempo distanziatore, base d’appoggio per i quadri e deviaflussi.

Relativamente alle effettive pratiche di conservazione, nonostante siano passati oramai cinque anni dall’emanazione del decreto di indirizzo, la situazione generale nei musei è, ad oggi, tutt’altro che delle migliori: interrogati con un apposito questionario, gran parte dei conservatori, pur avendole grossomodo chiare, non è in grado di attuare le norme previste se non in misura parziale, usualmente a motivo della sempre più scarsa disponibilità di risorse.
Anche il futuro non sembra roseo: come ha avuto modo di scrivere Ermanno Guida su questo giornale (cfr. GdA 38, marzo us) nella pletora di bandi di gara per i nuovi arredi destinati agli allestimenti sovente trionfa l’approssimazione. E ciò è ancor più grave, vista l’inveterata penuria di fondi.

Gabriele Toneguzzi

Articolo apparso su Il Giornale dell’Architettura, sezione musei, Giugno 2006

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Attilio Calzavara: Opere Pubbliche


Copertina del volume Opere Pubbliche, 1932

Attilio Calzavara: un architetto del regime non allineato
Immaginate d´essere ministro dei lavori pubblici d´un governo autoritario e dover commissionare un´importante pubblicazione celebrativa per magnificare dieci anni d’attività del vostro dicastero e del regime nel campo delle opere pubbliche. (altro…)

This entry was written by gt, posted on 14 Novembre 2006 at 00:21, filed under Architettura, Articoli/scritti, Biblioteca, Grafica, Recensioni, Riviste, Storia, Tipografia. Leave a comment or view the discussion at the permalink.

Gilles Clément: Manifesto del Terzo paesaggio

Manifesto  del Terzo paesaggio
Copertina del Manifesto del Terzo paesaggio

In questo preciso momento, ad un qualsiasi semaforo italico – sullo spartitraffico di turno –, si consuma l’ennesimo affronto ad uno scampolo di terreno. Un finestrino si abbassa ed implacabilmente qualcheduno scarica. Cicche, cartacce, plastica in sorte: per non parlare d’altro. Ecco illustrato, molto semplicemente, il caratteristico rapporto che intratteniamo con un tipico frammento del terzo paesaggio. Quello che, ad onta della sua invisibilità, è un habitat denso e, paradossalmente, fondato in gran parte da supposti spazi di risulta. Una sorta d’indefinita terra di nessuno. Qui avvengono accadimenti sconosciuti e piuttosto interessanti. Ma solamente essendo molto accorti potremmo coglierne il divenire e comprenderne l’importanza. Queste lande non sono fatte per i più, abituati alla naturalità giardinesca delle estese di prato plasticato monospecie, stucchevolmente rasate a mo’di tappeto daghestano.
In mille meandri residuali microscopici come un lichene, piccoli come un’aiuola, grandi come un fazzoletto di bosco planiziale di pianura miracolosamente sopravvissuto, ampî come declivi, vasti come quelli sottoposti al set-aside od abbandonati, si concentra l’indispensabile ed invisibile ricchezza della biodiversità. Sono lembi di suolo spesso ai margini delle città, vaghe isole sottoposte a pressioni fortissime da parte del territorio circostante. Qui, a tutte le latitudini, l’amalgama di specie animali e vegetali sopravvive nella varietà di comportamenti reciproci, evolvendo con una lentezza naturalmente esasperante nel tentativo di perpetuare il futuro biologico proprio e del pianeta. Piante pioniere, insetti delle più diverse specie, volatili, mammiferi. Esseri di piccola o grossa taglia. Questa è casa loro. Scegliere di non intervenire, in questi frangenti, è, per quanto bizzarro possa apparire, un’opportunità d’intervento.
Una boscaglia intricata ha un suo proprio ordine, pazientemente decifrabile. E questa constatazione può fungere da molla per ripensare il governo degli spazi aperti in modo più originale. L’osservazione attenta può portare a mutuare intuizioni anche per il più piccolo giardino, secondando la natura, al posto di combatterla. Sovente, le preferenze medie di chi commissiona verde, sono per l’impianto di individui asettici, che possibilmente non rilascino fastidiose foglie, privilegiando improbabili e costose piantagioni esotiche. Tanto che, ad esempio, il riuscire a mettere a dimora un semplice olmo è divenuto gesto assai insolito. Queste cose racconta nel suo libro Gilles Clément, che ha il non trascurabile merito, in poche e fittissime pagine apparentemente frammentate, di focalizzare e definire in autonomia, a seguito di sperimentazioni personali, i contorni del terzo paesaggio, scrivendone poi il manifesto.
Jardinier et écrivan, come lui stesso succintamente ama definirsi, Clément è, innanzitutto, un fine pensatore. E proprio il continuo interrogarsi, l’indugiare a lungo su aspetti non meramente formali, oltre a fare di lui un eccellente paysagiste lo rendono pure un raffinato teorico.

Gabriele Toneguzzi

Recensione apparsa su Parametro 264/265, luglio-ottobre 2006

Gilles Clément
Manifesto del Terzo paesaggio
(a cura di Filippo De Pieri)
Quodlibet, Macerata, 2005
pp. 87, 12.00 €

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Panorama sui panorami: nuove opportunità in fotografia

Basilica di San Marco: strisciata elaborata da Luca Vascon, ottenuta da più foto tramite PTGui (notare il confine dei singoli fotogrammi componenti l’immagine finale; cliccare per aggrandire)

Non di solo Cad vive il progettista: una parte tutt’affatto trascurabile dell’attività lavorativa riguarda la documentazione fotografica. In questo campo, oltre a celeberrimi, costosi e pubblicizzati software, la nozione a proposito dei prodotti disponibili è sovente piuttosto scarsa. Panorama Tools è una suite di programmi e librerie software freeware, originariamente concepite dal fisico e matematico tedesco Helmuth Dersch, dell’Università di Furthwangen. Serve alla creazione, con criteri scientifico-proiettivi, di immagini panoramiche (nell’accezione più ampia del termine) e panorami immersivi virtuali derivati dalla sovrapposizione di più fotogrammi sorgente esistenti. Una versione aggiornata di queste utility è il cuore pulsante di molti software a ciò dedicati.

Il professor Dersch ha cominciato lo sviluppo di PanoTools nel 1998 ottenendo una serie di strumenti molto versatili, potenti e professionali per produrre panorami ed altro. Ma ha dovuto cessare lo sviluppo nel 2001 a causa di noie legali derivate da pretestuose accuse di violazioni di brevetti da parte di una ditta d’oltreoceano, forte della discutibile prassi d’assegnazione colà vigente. Una prassi peraltro osteggiata dai fautori dell’opensource e che, se introdotta pure in Europa – in linea teorica –, permetterebbe di brevettare qualcosa di molto simile, in campo software, all’acqua calda.

Allo scopo di rendere più immediato e produttivo l’uso di questo software sono state create, nel tempo, una serie di Gui (Graphical User Interface), gratuite od a pagamento, che integrano una serie di funzioni aggiuntive e risolvono dei difetti software originariamente presenti, confezionando un robusto set d’attrezzi che dovrebbero comparire nella cassetta degli utensili virtuali d’ognuno. Sono suite multifunzionali destinate a gestire l’assemblaggio delle immagini. Grazie ad esse, ad esempio, è possibile superare la fase quasi artistico-naïve della mosaicatura manuale, la giustapposizione d’immagini diverse resa caratteristica da Enric Miralles. Questo può tornar utile, ad esempio, quando il soggetto, per svariati motivi, non può rientrare totalmente entro l’inquadratura.

Onde evitare problemi di parallasse, più foto dello stesso soggetto devono essere scattate attorno al punto nodale della camera (centro ottico) con un’accettabile sovrapposizione ed un angolo di campo non troppo marcato (evitando in questo modo possibili deformazioni nelle zone laterali del prodotto finale, causate da nicchie e/o protuberanze), per essere in seguito combinate ed amalgamate entro un unico fotogramma omogeneizzato risultante dalla combinazione e rettifica d’esposizione, cromìe ed angolazione tramite trasformazioni numeriche. Grazie a quest’ultime è possibile ritoccare interattivamente, entro certi limiti, anche la prospettiva della presa correggendo il frequente problema delle linee cadenti. E pure, volendo – a mezzo di speciali plugin –, si possono assettare aberrazioni cromatiche e deformazioni geometriche indotte dalle ottiche degli obiettivi. Durante il caricamento delle immagini, i parametri di scatto sono dedotti in automatico dai dati Exif (un prezioso set di informazioni standard che oramai ogni digitale archivia appendendolo al file). Successivamente, un programma s’incarica d’individuare, pure in automatico, numerose coppie di punti comuni fra due fotogrammi contigui. Di seguito, i software compiono una procedura d’ottimizzazione dei dati e propongono un’anteprima dell’immagine risultante, sulla quale poi è possibile intervenire ancora per ritoccare l’esito finale. Infine è possibile procedere al salvataggio decidendo fra i molti formati disponibili.


I vari software
(Front-end Gui con gestione completa della suite PanoTools)PTGui (Pano Tools Graphical Interface) è probabilmente il migliore e più completo gestore delle routine Panorama Tools, include autopano (individua in automatico i necessari punti comuni fra fotogrammi), Enblend (da sostituire con il più performante Smartblend, serve a fondere correttamente due immagini contigue). Si possono scegliere, in uscita, proiezioni rettilineari (adatte alla stampa) cilindriche o equirettangolari (per la creazione di panorami virtuali immersivi). È un programma shareware, ed è disponibile in versione Win e Mac. Dalla release 7.x (aggiornamento luglio 2007) è possibile generare direttamente files Qtvr. La nuova versione Pro permette di creare panorami Hdr.

http://www.ptgui.com

PTMac è un’altra raffinata Gui dedicata ai Panorama Tools ed Enblend. È un programma shareware, ed è disponibile solo in versione Mac: Classic e OS X. Un po’ meno performante rispetto a PTGui

http://www.kekus.com/software/ptmac.html

PTAssembler è un’ulteriore e sofisticata Gui per i Panorama Tools, Autopano ed Enblend. Ceduta in modalità shareware, è disponibile solo in versione Win.

http://www.tawbaware.com/ptasmblr.htm

Hugin è un’altra ottima Gui multipiattaforma, purtroppo non ancora del tutto stabile, dedicata i Panorama Tools, ed integra Nona (una routine per cucire fra loro distinti fotogrammi), Autopano, Autopano-sift (altro gestore di punti comuni tra fotogrammi) ed Enblend. Oltre alle proiezioni proposte da PTGui, è in grado di elaborare proiezioni stereografiche, di Mercatore, (anche trasverse) e sinusoidali. È un programma open source e freeware per Linux, UNIX, OS X e Win

http://hugin.sourceforge.net/

PanoWizard, ultima Gui trattata tra quelle dedicate a Panorama Tools comprende Autopano, SmartBlend ed Enblend. È un programma freeware disponibile solo in versione Win

http://www.egelberg.se/panowizard/


Altre Gui speciali

Enblend Front End è una sorta di involucro software costruito su Enblend. È un programma freeware disponibile in versione Win e, per le routines da abbinare a PTGui, anche su Mac

http://www.teapot.orcon.net.nz/enblend/enblend.html

PanoCube è un altro involucro software costruito attorno ai Panorama Tools per la conversione di immagini equirettangolari nel formato QTVR. È un programma shareware, ed è disponibile in versione Linux, Win e Mac OsX (per quest’ultimo, solo via command line)

http://www.panoshow.com/panocubeplus.htm

Pano2QTVR (Pano to Quick Time Virtual Reality) infine, è forse il miglior software utile a convertire immagini in panorami equirettangolari (360°x180°) in Quick Time movies cubici oppure in files Flash e concatenarli fra loro ottenendo tours virtuali; include un editore di Hotspot. È un programma shareware/freeware (per uso non commerciale), disponibile solo in versione Win

Aggiornamento: dalla release 2.x (da Ottobre 2007 in beta) è disponibile pure in versione Mac e Linux

http://www.pano2qtvr.com/


Utilities

Smartblend ottimo ed utilissimo strumento per l’omogeneizzazione, nella fase di assemblaggio, delle varie fotografie risolvendo problemi di parallasse, oggetti in movimento e di eposizione delle singole prese; disponibile, freeware, solo su piattaforma Win. Da abbinare, come plugin, in vari software fra cui PTGui e Hugin http://smartblend.panotools.info/

Informazioni generali a partire da http://panotools.org

oppure

Panotools Wiki

http://wiki.panotools.org/SmartBlend

Gabriele Toneguzzi

Articolo apparso su Il Giornale dell’Architettura (informatica) Luglio-Agosto 2006

Articolo di Luca Vascon Fotografia immersiva con Nikon Coolpix P5000

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il nuovo ETR 600 Pendolino

Etr 600, Mockup Alstom

ETR 600 Pendolino (mockup Alstom)

Durante i Giochi Olimpici invernali è stato esposto nella stazione di Torino Porta Nuova il simulacro del nuovo Pendolino commissionato da Trenitalia alla società Alstom in 12 esemplari, al costo di circa 20 mln di euro cadauno, che verrà consegnato forse verso fine d’anno. Si tratta della quarta versione dell’eccellente convoglio ad assetto variabile realizzato, per diverse aziende ferroviarie, in oltre 400 esemplari nell’arco di trent’anni. (altro…)

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Giuseppe Pagano Pogatschnig: lettera ad un’amica sconosciuta


Giuseppe Pagano Pogatschnig autoscatto presso l’Università Bocconi, 1940?

Trieste, 8 luglio 1919

Gentilissima
l’uomo dal mistero, il redivivo, colui che ha bevuto a larghe sorsate dal calice del piacere e del dolore, Vi dice qualcosa di sé, allegramente,

La cattura. Voi sapete che ai primi di febbraio del 1917, a forza di insistere contro la magra mentalità dei despoti del mio deposito di reggimento, io sono riuscito a partire per la fronte: zona di Gorizia: San Marco: Santa Caterina: cimitero di Gorizia E dal cimitero di Gorizia, da una sgangherata tomba di famiglia piena di topi e di fango, intrisa di pidocchi e di sangue io sono partito per l’ultima mia pattuglia, la notte del 31 maggio 1917. Era una notte tutta buia, stanca, opaca, inerte: nessun chiaroscuro d’artiglieria, neanche la lucciola di nessuna fucilata, neanche lo spiraglio di un patetico chiaro di luna o la ditataluminosa d’un riflettore. Strisciando di buca in buca tra i grovigli di ferro spinato e la morchiosa gelatina del pantano di terra rossa, ho raggiunto la trincea austriaca con pochi fidati. Fiducioso nella mia fortuna ho tentato il colpo di mano: sono penetrato nel covo ed ho ingaggiato il corpo a corpo. Caddi subito ferito; al ginocchio. Una torma odiosa di galiziani mi prese e mi trascinò nella loro caverna. Così fui preso.

Via Crucis. E incominciai la mia dolorosa odissea. Di Comando in Comando. Arrivai il giorno dopo alla 58esima divisione austriaca dove subii il primo interrogatorio. La certezza di correre ancora un pericolo inesorabile, la sensazione di combattere ancora per la mia testa minacciata della scomoda posizione del capestro, mi diede il mio sangue freddo e, con la serenità, l’astuzia di saper inventare frottole per cambiare il mio stato di nascita.

« Come si chiama suo padre? » La faccia cachetica d’un capitano di Stato Maggiore, che puzzava d’italiano rinnegato, m’interrogò coscienziosamente, premurosamente, diligentemente e seppe così che io ero nato a Padova, avevo studiato a Padova, abitavo a Padova e via via così senza poter gustar la soddisfazione d’una incoerenza.

Il 2 giugno in una stamberga piena di paglia pativo la prima crisi di appetito e masticavo rabbiosamente il primo tozzo di pane nero, umido, malleabile e pesante come la plastilina. La mattina dei 3 giugno ho visto Trieste dal ciglione del Carso, approfittando di due ore di sosta a Opcina e dell’arrendevolezza del mio accompagnatore. Non una città vivente io ho visto: era uno scenario di case bianche, immobili, senza vita, inginocchiate al mare in un lungo semicerchio silenzioso: era la città morta protesa ansiosamente sulla lastra azzurra dell’Adriatico senza vele, senza fumo: pesava un sudario di sonnolenza asiatica sul biancore di quella città schiaffeggiata dal sole e dal destino. Quante emozioni nel mio cuore così duro a commuoversi.

Poi nel castello di Lubiana, su per una collina verde, in una bicocca feudale irta di sentinelle e di catenacci, chiusa da inesorabili inferriate. Qua dentro mi medicarono la ferita. Qua dentro incontrai tre colleghi del mio reggimento e parecchi soldati, presi il 27 maggio al contrattacco della quota 126 di Grazigna. Quando mi videro, molti dei miei soldati piansero per il mio pericolo e, pur nell’incubo della fame nera, nessuno parlò quello che di me con certezza sapevano. Fui salvo per il loro amore. E pur c’era un bando che prometteva molto danaro per la testa d’un disertore irredento.

Tagliai la mia camicia per farmi dei fazzoletti, masticai foglie d’ippocastano per fumar sigarette, sciolsi in pochi giorni tutto il rosario delle mie bestemmie.

In Boemia. Il 16 giugno, con un convoglio di ufficiali italiani catturati a Duino, partii per Theresienstadt in Boemia. Fummo chiusi in una fortezza che imprigionò Luigi Pastro nel ‘48. E qui soffersi la fame. E inutile che io voglia descrivervi lo spasimo di questa sofferenza. Tanto già non avete la possibilità di immaginarvela. Solo chi l’ha provata questa tortura, sa che cosa significhi questa terribile parola: FAME. Fame prima di mangiare e fame più tremenda dopo il pasto. Vita intessuta di sbadigli apopletici, passata in un dormiveglia sonnanbolico sui pagliericci delle nostre basse e lunghe camerate. Debolezza fisica esasperante, invincibile sì da non poter fare neppure le scale… E il cervello sempre ossessionato di scorpacciate luculliane e di fantastiche scorrerie in libertà completa…

Poi venne dall’Italia qualcosa da mangiare, poi venne lo schianto di Caporetto, poi le speranze della nuova primavera.

La prima fuga. Il 5 giugno 1918 tentai la fuga. Era già molto tempo che mi preparavo. Di notte, con la pazienza di un topo, mi avevo costruita una giubba austriaca. In mille maniere consigliate dalla necessità imperiosa m’ero impadronito di tante cose necessarie. Avevo catechizzato tre proseliti che mi aiutarono con le loro cibarie. Assieme, la mattina del 5 giugno 1918 tentai l’avventura. Durante la passeggiata, deludendo le sentinelle, saltammo una siepe e fummo uccelli di bosco.

Da Theresienstadt a Praga 68 chilometri superati a piedi in meno di 34 ore. A Praga ci scodellammo in un albergo; ma poi vinse lo stimolo della curiosità e la sete di godimento: lasciai i tre dormienti: non riposai nulla e passai la notte in un’orgia indimenticabile. La mattina dopo un caporale austriaco con la faccia tutta schizzata da una miriade di nei capricciosi, conduceva lentamente fuori di città una piccola pattuglia di tre soldati austriaci. Dove andavano così allegri quei luridi fanti austro ungarici? Verso il mare andavamo, verso l’Italia, e ci scoppiava il cuore per l’emozionante speranza.

A piedi notte e giorno per la valle tetra della Moldava: boschi di pini profumati e rovesciati sul corso argenteo del fiume: altipiani monotoni traversati da grandi materassi di frumento: campagne geometriche macchiate di casette bianche coperte di ardesia colorata. Un tozzo di pane, delle salsicce, della birra e avanti avanti avanti. Mauszta! Našdar! Addio! Salve! bellissima Boemia. lo ti conosco bene. 7 notti ho dormito sulla tua terra: 250 chilometri delle tue strade sono stati calcati dal ferro delle mie scarpacce. Addio superdonne di Praga che prima d’innamorarvi fate della politica; addio contadine piene e bronzute vestite come la madonna di Lourdes, quando indossate il vostro costume nazionale che sa di calabrese. Quanta noia dovervi ammirare senza potermi fermare; quanto dolore sentire il desiderio ed esser così stanco da non aver il coraggio di soddisfarlo. Ma verrà il giorno…

Verso Trieste. Così circa io pensavo quando vidi finalmente la torre gotica di Budweiss. Praga, Stechowitz, Kolin, Selčan, Tabor, Budweiss. Fin qui ci portarono le nostre gambe. A Budweiss ebbi una nuova alzata d’ingegno: comperai dei fogli di licenza e con un pennellino falsificai l’aquila bicipite del timbro rotondo. E allora conquistammo le ferrovie di tutto l’impero austro ungarico. In terza classe a Linz e da Linz direttamente a Trieste in un treno stipato di soldati pidocchiosi, catarrosi, puzzolenti, luridi. Gomito contro gomito, le ginocchia sulla faccia d’un ignoto, la testa d’un altro ignoto sulla mia spalla, le mie gambe traversate da un groviglio di altre estremità simili, la faccia pestata contro lo schienale col pericolo continuo d’uno scaracchio in piena guancia: durò un giorno e una notte.

Ma all’alba del 13 giugno rivedemmo improvvisamente il mare e fummo a Trieste. Il mare: Trieste: l’odore salso: il dialetto veneto: le strade natie: i nomi già conosciuti: la sensazione di dover incontrare un amico… Meritava maggiori rischi una gioia simile!

Sgomento romantico dei primi incontri. I miei non li vidi: erano internati lontano ma vivevano. Andai a trovar una famiglia nota anche per fare un po’ di 48 con due belle signorine: la maggiore, che tre anni fa faceva la ritrosa, mi buttò le braccia al collo e dovetti sorbirmi una dichiarazione amorosa. Dopo una dichiarazione così compromettente la feci lavorar per me: mi trovò una barca: montammo in quello schifo: tentammo l’Amarissimo e addio mia bella Didone. Al largo di Pirano ci fermano, ci riportano a Trieste, ci sequestrano la barca e… ci rilasciano con una calda lavataccia di capo. Alla sera del 18 prendemmo il treno per Portogruaro.

Sul fiume sacro. Era scoppiata l’offensiva. Incontrammo treni di feriti che ci dissero le prime battoste austriache. Decidemmo di tentar la traversata della linea di combattimento. A piedi, di notte, lentamente marciammo verso la linea luminosa e rumorosa del combattimento: Portogruaro: Pramaggiore: Ceggio (sic): San Donà di Piave. Mangiammo nei fienili dei cascinali friulani latte e polenta offertaci dalla ospitale bontà dei contadini. A San Donà distrutta dall’artiglieria, giungemmo la notte sul 20 giugno. File laboriose di pontieri austriaci stavano gettando un ponte: ma il Piave quella notte non si poté passare. All’alba cercammo un ricovero. Scoprimmo una grande botte rovesciata e arenata in una marca di macerie. Ci nascondemmo là dentro e dormimmo: 12 ore di stanchezza: 12 ore di impazienza: 12 ore di lavorio instancabile a distillar sogni felicissimi sottolineati di tanto in tanto dal crepitar delle mitragliatrici, dal rombo delle bombarde, dallo schianto delle batterie in azione…

La notte del 20, vestiti da portaferiti, in un barcone del Genio. Appena dall’altra parte, afferrati subito dal morso della nostra artiglieria, strisciammo avanti, verso la cortina della fucileria, verso le bandiere luminose dei nostri riflettori.

Ancora grovigli di ferro spinato, carcasse di quadrupedi sventrati, puzza di cadavere, orgia di traiettorie violente, e un ricamo di stelle lucidissime attorno al pallone argenteo della luna piena.

Verso le tre fummo sulla prima linea. Ci fermò un piccolo fante con una mitragliatrice.

- Chi va là?

- Portaferiti… C’è qualche ferito?

- Nessuno. Andate via che qui c’è pericolo.

- Dove sono gl’italiani?

- Qua davanti a noi. Non andate a sinistra perché non c’è linea nostra per quasi cento metri e vi batte la mitragliatrice italiana.

Strisciammo naturalmente per il passaggio scoperto. Traversammo due filari di viti. Giungemmo all’argine del canale Della Fossetta. Davanti a noi, oltre l’acqua, una mitragliatrice pistola sbuffava la sua litania rabbiosa in mezzo allo scrocchio secco dei nostri 91. Ci sembrava d’esser giunti ma non si poteva far sentire la nostra voce. Ci sembrava di poter passare ma scendere nell’acqua significava morire. Ci sembrava d’aver vinto ma non ci potevamo muovere. Quanto tempo passò? Pochissimo credo. E noi rimanemmo sempre forzatamente inchiodati a terra. Poi improvvisamente lo schianto delle bombe a mano dietro a noi. Un’ondata d’assalto austriaca ci raggiunge, ci sorprende, si arresta in mezzo a noi. Una pistola mi punta la tempia e mi sento, parlare in boemo…

Presi. Eravamo nelle mani d’un reparto d’assalto austriaco del 122° reggimento croato. Quattro soldati con la baionetta e un ufficiale ci accompagnarono nella casetta del Comando di battaglione, sempre parlandoci in boemo. Lo schianto nostro era tale che ci si sentiva pronti a qualunque avvilimento, a qualunque disgrazia, ormai. Inerti, senza parlare, lasciammo fare. Ci misero contro un muro, schierarono dei soldati contro a noi: un ufficiale ne prese il comando. E allora vidi improvvisamente chiara la mia situazione. L’abbattimento dei dolore fu vinto dal nuove pericolo: parlai in tedesco: dissi chi eravamo: mostrai la mia tessera di riconoscimento di ufficiale italiano… E allora si sciolse la situazione. Mandarono via il picchetto che ci voleva fucilare: ci portarono in una stanzetta e ci perquisirono tutti fino a spogliarci nudi. Un ufficiale boemo di nascosto mi strinse la mano, un capitano austriaco sgranò tanto d’occhi quando seppe la nostra avventura. Nessuno disse: Pfui italiener!

Ma nel traversar di nuovo la zona di combattimento e poi le carceri delle retrovie dovemmo subire tutta una lunga serie di umiliazioni e di minacce. A S. Stino (carcere di Corpo d’Armata) un colonnello austriaco mettendosi due dita sotto la gola mi gridò: « Impiccarvi bisogna al primo albero! » A Udine (carcere della Isonzo Armée) fummo buttati in un camerone assieme ai delinquenti, alle pulci, ai pidocchi, a morderci le unghie a masticar brodaglia nauseabonda… Ma se dovessi scender a particolari non basterebbe né inchiostro né carta.

Disavventure. Dopo 17 giorni di carcere fummo mandati a un centro di raccolta per prigionieri a Porta Aquileia. Da lì, in una notte di pioggia, mi buttai giù dal primo piano. Mezzo scalzo camminai fino a Vittorio Veneto. Là la mia disdetta mi riprese. Inseguito dai gendarmi, esausto, lacero, sfinito, fui ripreso. Mi portarono in una sgangherata carretta a Udine guardato da quattro baionette. Poi a Brazzano, dove mi fecero fotografare di faccia e di profilo e registrarono le mie impronte digitali. Poi ammanettato al castello di Lubiana, da Lubiana a Kleinmünchen e finalmente di nuovo a Theresienstadt, al carcere di guarnigione, dove ritrovai i miei tre compagni.

Tre mesi passai in carcere in attesa del processo e fu questo il più bel periodo e il più allegro della mia prigionia. Il 21 settembre 1918 con gran solennità ci fecero il processone. I giudici erano quasi tutti boemi. Eravamo accusati di truffa contro le ferrovie dello Stato austro ungarico: ebbimo tre settimane di arresti, passati in una cura intensa di ricostruzione fisica e in un affannoso preparativo per la ultima imminente fuga, decisiva, finale.

Chi la dura la vince. Appena ritornato al campo di prigionia, sacrificai tutto per far danaro. Mi feci fare una elegantissima divisa da sergente austriaco. Preparai nuovi fogli falsi. La notte del 23 ottobre fuggimmo: su per la fognatura lungo il cornicione del forte: poi giù con una corda nel fossato dei bastioni. Alle 5 di mattina prendemmo il treno. Alle 10 eravamo a Praga, già in sobbollimento rivoluzionario. Il giorno dopo a Vienna. La notte del 29 ottobre giungemmo nuovamente a Trieste. In divisa italiana assistemmo; partecipammo, poi dirigemmo la rivoluzione triestina. Ebbimo il comando militare di Trieste dal 30 ottobre al 3 novembre. Nelle mie mani consegnò le armi il comandante austriaco della piazza marittima di Trieste. 800 nostri soldati salvarono la città dal saccheggio dei teppisti evasi dalle carceri: entusiasmo: confusione: fucilate: proclami: ansiosa attesa degli italiani. All’alba del 3 novembre sono partito con un idrovolante per Venezia. La nebbia ci fece deviare, la sorte mi portò proprio nella mia patria a Parenzo. Davanti a casa mia, che per tre anni era stata il Comando degli idrovolanti austriaci: baci: abbracci: trionfo: discorsi. Tutte le ragazze appoggiarono le loro labbra entusiaste sulle mie guance sporche d’olio di motore. Ognuna mi strappò per ricordo un pezzetto del cappotto. Poi partenza per Venezia e da Venezia sbarco a Trieste la sera del 3 novembre.

Epilogo. Nel trionfo della epopea fui schiantato da una brutta notizia: in seguito alla mia cattura mi avevano sospettato disertore. Dovetti chiedere il processo. Il 27 novembre (avevo appena rivisto mio padre e mia madre reduci anche loro dal carcere austriaco) dovetti partire in istato di arresto per Padova. Tre mesi di istruttoria: tre mesi dolorosissirni: tre mesi di brutta, ingrata esperienza. Ma poi venne di nuovo finalmente la luce. Con una bellissima sentenza fui assolto in istruttoria per inesistenza di reato. Il mio colonnello, tanto per farmi dimenticare la brutta avventura, mi scrisse d’avermi proposto per tre medaglie d’argento, che non credo però sia ancora il caso di sperare d’averle. Ritornato al deposito mi consegnarono due medaglie al valore che dormivano da molto tempo negli scaffali polverosi di quegli uffici.

E da Padova finalmente venni a Trieste, dove caracollo per il quai popolato di belle femmine isteriche di patriottismo e d’altro.

I miei intanto stan benone anche loro: mia madre si sta di nuovo ingrassando: mio padre sta abituandosi a farsi chiamar commendatore.

Ecco la mia storia e scusate se è poco.

Ricordatevi dell’amico

[testo sta in]

(a cura di) Cesare De Seta
Giuseppe Pagano Architettura e città durante il fascismo
Bari, 1976

[foto sta in]

Cesare De Seta
Il destino dell’architettura
Persico Giolli Pagano

Bari, 1985

This entry was written by gt, posted on 25 Ottobre 2006 at 12:37, filed under Architettura, Articoli/scritti, Biblioteca, Riviste, Storia. Leave a comment or view the discussion at the permalink.

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