Gabriele Toneguzzi

Giuseppe Pellitteri: Il carattere tipografico oggi

rassegna delle arti contemporanee biennale venezia
la biennale di venezia
/ rassegna delle arti contemporanee n. 61

IL CARATTERE TIPOGRAFICO OGGI

È fuori discussione l’influenza che può avere il carattere tipografico nella formazione o deformazione del gusto e come esso sia o possa essere l’espressione di una sintesi dell’estetica visuale, quale si deduce in un determinato momento storico, in sintonia con le altre espressioni visive e anche in rapporto con le arti figurative e architettoniche o con altre attività di coordinamento di elementi visivi.

Mancano studi significativi e convincenti in ordine a questa realtà spesso sottovalutata o mal conosciuta.

Anche cultori assai autorevoli, se toccano l’argomento del carattere tipografico, sono portati talvolta a trattarne con sorprendente disinvoltura.

Gillo Dorfles, per esempio, all’inizio della sua interessante pubblicazione «Simbolo, comunicazione, consumo», volendo addurre un presunto evidente esempio di obsolescenza, un caso di rapido consumo, addita “…il divenire desueto del carattere tipografico Che verrà usato per comporre questo testo…”. Senonché, nel caso del volume del Dorfles, il carattere è il Garamond, che da quasi cinque secoli non accenna affatto a divenir desueto, anzi accoglie sempre più evidentemente ed universalmente il consenso dei grafici di ogni latitudine, ed è d’impiego sempre più generale e crescente.

La teoria dell’obsolescenza, perciò, occorre fondarla su basi più solide, perché la sua presunta generalizzazione indiscriminatamente riferita a tutti i casi di espressione visiva potrebbe essere facilmente contestata. Il “consumo” è un fatto certo e dimostrabile e anche statisticamente studiato con qualche successo, ma è altrettanto certa e dimostrabile la “persistenza nel tempo di determinate espressioni”.

Ho cercato di dimostrare nella recente Mostra della «Lettura del linguaggio visivo» organizzata dalla Scuola di Scienze e Arti grafiche deI Politecnico di Torino, che converrebbe studiare le espressioni visive utilizzando le risorse metodologiche in uso nelle trattazioni di quello che, troppo unilateralmente, finora è stato ritenuto in sede accademica l’unico linguaggio suscettibile di studio, vale a dire l’oggetto della glottologia.

La parola linguaggio va assumendo accezioni più ampie del circoscritto uso tradizionale riferentesi alla mera glottologia sebbene non è da oggi soltanto Che si parla di linguaggio pittorico, architettonico, musicale, ecc.

Nello studio della linguistica intesa come attività sociale di espressione e comunicazione, riferita a qualunque forma o mezzo di cui ci si possa servire, oltre al modo consueto della parola, sono certamente utili le indagini e le conclusioni elaborate dai linguisti tradizionali.

La stessa faticosa e ancor non raggiunta rivendicazione dell’autonomia della scienza linguistica, anzi l’ancora discussa definizione dell’oggetto della scienza del linguaggio, dimostra la labilità di certe demarcazioni troppo esclusive.

Le concomitanze ai vasti campi affini o indirettamente implicati col fatto linguistico rendono più problematica la delineazione della scienza linguistica.

Infatti, a seconda delle specializzazioni, delle particolari tendenze o degli interessi dei singoli studiosi il linguaggio è stato talora considerato, come problema della conoscenza, oppure come la normativa dell’espressione, come Io studio del meccanismo fisico dell’emissione della parole, come manifestazione della personalità di singoli o di collettività o come critica letteraria.

Le implicanze del fatto linguistico con la filosofia, la fisiologia, la psicologia, l’antropologia, la critica letteraria e i conseguenti disparati compiti assegnati alla linguistica da singoli studiosi hanno reso più ardua la sistemazione dottrinale di questa disciplina.

Inoltre le varie prospettive di studio: origini, essenza, fini, strumentalità della lingua estendono il campo delle indagini e danno il senso della complessità e varietà della questione.

La tematica linguistica diviene ancor più impegnativa se oltre al consueto mezzo della parola o dello scritto si studiano altri tipici mezzi di espressione e comunicazione.

L’esigenza di estrinsecazione del pensiero o del sentimento con la fissazione di immagini di valore universale è il movente essenziale di ogni manifestazione linguistica, e si hanno molteplici modi di soddisfare a questa fondamentale esigenza dell’individuo in ordine alla società di cui fa parte.

Lo studio comparativo di questi mezzi di espressione e comunicazione rientra evidentemente nell’ambito della linguistica nel significato più ampio del termine.

Mi pare che si debba partire da queste premesse per rendersi conto della realtà del carattere tipografico.

La stampa, come linguaggio, è governata da leggi analoghe a quelle che si riscontrano nella genesi e nell’evoluzione del linguaggio umano.

La libertà della creazione individuale, le norme fissata dalla tradizione, Io svolgimento Storico sono gli aspetti fondamentali distinguibili e nella stesso tempo indissolubilmente legati che gli studiosi hanno rilevato nella loro indagine sul linguaggio.

Storici, sociologi, psicologi, critici, etnologi, glottologi, filologi incontrano in ogni fase del loro lavoro i problemi del segno e del significato, dell’espressione e della comunicazione, della parole a della lingua.

La stampa prende le mosse dalle esigenze linguistiche, non può prescinderne, anzi ne traduce e interpreta gli aspetti formali e ne segue le vicissitudini.

Come la lingua muta nel tempo, non solo, ma in ogni luogo e momento chi parla o scrive si serve dei modi espressivi di ambienti particolari distinguibili, così Io studio della stampa può rintracciare e seguire nel loro svolgimento storico tanto i criteri che hanno guidato la libertà creatrice dei singoli, in rapporto alle norme fissate dalla tradizione, come pure i procedimenti e le tendenze secondo cui tali norme si sono costituite e trasformate.

Occorre saper “leggere” il carattere tipografico. Il semplice segno alfabetico, oltre alla convenzionale struttura morfologica, esprime anche altre realtà ed è portatore di vari significati e funzioni; infatti al valore fonetico o altrimenti convenzionale sono congiunti: un indirizzo sociale, un significato emblematico, una funzione ornamentale, per limitare l’elenco agli aspetti più salienti.

Par studiare il carattere tipografico moderno bisogna prender le mosse da un’ampia prospettiva e anche nel nostro caso il metodo sincronico e diacronico trova una valida utilizzazione.

Non c’è stata soluzione di continuità all’origine della stampa a caratteri mobili tra l’aspetto morfologico delle lettere dei codici e quelle riprodotte in tipi.

La mutuazione della struttura morfologica e stilistica del segno alfabetico vergato del copista e quello punzonato nella matrice e fuso dai prototipografi non è un caso di assuefazione pura e semplice, per mancanza di originalità; è invece la dimostrazione di una legge inderogabile del linguaggio visivo.

Le mutazioni in questo senso avvengono lentamente con inesorabile gradualità.

La curva dell’obsolescenza, soprattutto dei caratteri per testi, segue un andamento di impercettibile variazione, con scarti di tempo assai lunghi; anzi si può notare una sorta di ancoraggio a soluzioni formali che sfuggono risolutamente agli andamenti fluttuanti della moda.

Stanley Morison, uno dei più autorevoli tipologi viventi, dichiara che un carattere di testo avrà fortuna se le variazioni formali saranno individuabili solo dagli specialisti, perché il pubblico dei lettori non tollera passaggi bruschi nell’aspetto dei caratteri di testo.

La prospettiva storica del carattere ha infatti poche tappe veramente fondamentali, anzi si può asserire che il faticoso travaglio di cinque secoli di stampa, in ordine al dIsegno dei caratteri, ha portato a delle graduali e quasi impercettibili varianti dello stesso tema stilistico, lasciando presso che intatta la struttura fisionomica del carattere Romano.

I più significativi disegnatori di caratteri si prefissero sempre e si prefiggono tuttora la strutturazione di un “Romano”, quasi ad attingere dalle classiche iscrizioni delle lapidi e monumenti dell’antica Roma l’ispirazione, e quelle antiche iscrizioni interpretare e tradurre in tipi. A conferma di questa asserzione basta l’accenno al carattere che anche in Italia si sta affermando attualmente e che con denominazioni aventi soprattutto motivazioni commerciali, si ispira al «Times new Roman», curato da Stanley Morison, che a sua volta è una delle più felici interpretazioni del Romano classico lapidario con l’arricchimento delle laboriose soluzioni che iniziarono col «Roman du Roi».

Una rapida scorsa all’opera dei più importanti tipologi e artisti del carattere latino per testi conferma ulteriormente quella tesi: Jenson, Griffo, Garamond, Granjon, Plantin, Grandjean, Caslon, Baskerville, Fournier, Fleischman, Didot, Bodoni, Ibarra, Walbaum, De Vinne, Dwiggins, Erbar, Gill, Austin, Goudy, Bayer, Butti, Novarese, Griffith, Höfer, Bauer, Krimpen, Mardersteig, Middleton, Miedinger, Morison, Renner, Tannhäuser, Trump, Tschörtner, Weiss, Winkow, Wolf, H. Zapf. Frutiger, ecc.

Si studino diligentemente le collezioni tipologiche di questi e di altri importanti artisti e si avrà conferma che, pur nella evidente diversità stilistica, c’è una costante e talora quasi impercettibile ricerca del perfezionamento della fondamentale struttura alfabetica romana.

Non si vuol dire che tra il romano jensoniano e l’Univers del Frutiger non ci sia divario di stile, si vuole soltanto sostenere che nell’elaborazione di caratteri non si tratta tanto di ricerca di sensazionali novità o di mode suggestive e passeggere, ma di un costante, graduale, perfezionamento di una stessa struttura, la cui evoluzione si svolge in modo analogo al fatto linguistico.

La lingua italiana attuale differisce dalle lingue del Trecento a dei secoli successivi, ma si tratta pur sempre fondamentalmente della stessa lingua italiana.

Un significativo caso di quasi testardo ritorno alle fonti genuine del carattere umanistico è quello di William Morris; egli si prefisse di combattere l’anonimismo industriale per conferire al lavoro un’impronta di personalità. Dalla Kelmscott Press il Morris pubblicò soprattutto col Golden Type delle edizioni significative sotto il profilo grafico e di coerenza stilistica con la linea teorica precedentemente formulata.

Ma come il linguaggio gradualmente si configura in modi diversi anche se emergenti lentamente, anche il carattere tipografico segue le vicissitudini generali delle espressioni visive e si sintonizza con le tendenze generali di rinnovamento stilistico.

Il fatto più significativo è dato dai “lineari”, ossia dai caratteri senza terminali.
La remota origine di questo stile tipologico può ricercarsi nelle antiche iscrizioni greche e latine che precedettero di vari secoli il Romano, prototipo dei caratteri classici di ogni tempo, ma i primi tipi lineari compaiono nel secondo decennio del secolo scorso.

Le collezioni alfabetiche di William Caslon IV, di Vincent Figgins, di William Thorowgood sono i prototipi di uno stile che doveva arrivare lontano e segnare una tappa assai significativa nella storia del carattere tipografico. Il secolo scorso si chiude col fortunato «Akzidenz Grotesk» della fonderia Berthold; nel nostro secolo c’è un crescendo quantitativo e un affinamento sempre più scaltrito nella tipizzazione dei lineari.

Une spinta verso la definitiva sistemazione anche teorizzata di questo moderno stile alfabetico fu data dalla Bauhaus, che contribuì all’affinamento e alla razionale applicazione dei lineari.

In polemica con la teorizzazione del Morris, la Bauhaus, convinta dell’impossibilità di un ritorno globale all’artigianato, e coll’intento di disancorarsi dagli schemi del passato, anche se illustre, puntò verso la nuova formula pedagogica secondo cui un oggetto deve essere soprattutto funzionale.

L’essenzialità, la razionalità, l’elementarità trovarono la loro naturale espressione anche nella tipologia “lineare”.

Ben presto e a lungo raggio la lezione fu compresa e l’esempio attecchì: pertanto si ebbe una ricca fioritura di collezioni aIfabetiche senza terminali

L’Erbar, il Futura di Paul Renner, il Kabel, Io Stahl, il Nobel, il Neuzeit Grotesk, i lineari della Monotype e molti altri ebbero un largo impiego.

Un posto a parte, per la diversa ispirazione stilistica, in un certo senso in, polemica con la didassi della Bauhaus, spetta al lineare di Edoardo Johnston eseguito per la Metropolitana londinese, e ai Sans serif di Eric Gill.

Le imitazioni e le contraffazioni naturalmente dilagarono ovunque, segno che il nuovo stile era man mano penetrato nell’uso, e si era formata la consuetudine visuale col lineare.

Recentemente la tipologia dei caratteri senza terminali si è arricchita di nuovi geniali interpretazioni, tra le quali spiccano l’Univers di Adrian Frutiger, l’Helvetica della fonderie Haas, il Mercator della fonderia Amsterdam, il Folio della fonderia Bauer.

Altra caratteristica assai rilevante che si è accentuata partendo dai primi decenni del secolo scorso è la varietà delle serie promananti da uno stesso ceppo stilistico.

Ai nostri giorni, l’introduzione della fotocomposizione ha accresciuto illimitatamente le possibilità delle variazioni dei tipi: modificabilità di pendenze, di nerezze, di spessori, allungamenti, inversioni, polimorfosi.

Ormai il limitato campionario di caratteri è un ricordo storico, e il moderno impaginatore dispone di risorse tipologiche inimmaginabili negli anni quaranta.

Sotto certi aspetti siamo alle soglie di una rivoluzione tipografica in ordine alla tipizzazione, e si può dire che i grafici attuali non hanno ancora tutta la consapevolezza delle nuove risorse e non sono sufficientemente scaltriti per dominare e strumentalizzare i nuovi mezzi grafici.

Ma, soprattutto per la composizione dei testi, c’è da riconfermare la validità delle fondamentali collezioni alfabetiche che hanno dato buona prova nel corso dei cinque secoli di stampa.

Il Bembo, il Garamond, il Baskerville,il Times new roman, il Plantin, il Walbaum, il Bodoni, il Van Dyck, il Bell, l’Imprint, lo Scotch, il Didot, lo Spectrum, il Centaur, il Dante, il Bulmer, il Goudy, l’Emerson, e altri classici della tipologia appartengono ormai all’essenza della tipografia che il tempo non cancellerà.

Del resto, ormai il carattere latino è stato oggetto di così attento, prolungato e universale studio che si può delineare un prospetto degli incasellamenti stilistici entro cui ogni futura elaborazione potrà essere agevolmente collocata.

La classificazione morfologico decimale che da anni ho sperimentato in sede didattica e in ambienti tecnici, costituisce, mi pare, un utile strumento per Io studio delle molte migliaia di collezioni alfabetiche esistenti e un agevole orientamento per le proprie scelte.

L’Impiego del carattere tipografico è un argomento assai allettante a ampio, ancora più vasto se si pensa che le forme alfabetiche interessano non soltanto la stampa ma anche l’architettura e, in genere, ogni espressione visiva.

Il volto delle città è anche marcato dei segni alfabetici che ne denotano il gusto e, in genere, gli orientamenti estetici. Un’iscrizione, un’insegna, una dicitura luminosa, come une pagina stampata contrassegnano la personalità del progettista o committente e influenzano il fruitore.

Anche il carattere tipografico è un fatto distintivo dl cultura e di sensibilità. Con esso possono ottenersi delle strutture grafiche che esulano del consueto uso dello stampato tradizionale.

Data la nature necessariamente schematica di questo saggio ci pare utile presentare qualche esempio dl moderne soluzioni grafiche che denotano nuove vie dl applicazioni ed esprimono inconsuete forme di espressioni visive.

Giuseppe Pellitteri

Sta in: la biennale di venezia no. 61 - marzo 1967, rassegna delle arti contemporanee, pp.38-50

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